Da Torino alla campagna attorno a Cuneo, dove abita Enrico Tealdi, il viaggio in autostrada, quel pomeriggio, è durato un po’ più a lungo del previsto. A un certo punto ha iniziato a piovere sempre più forte, poi a grandinare, era impossibile non rallentare bruscamente; molte automobili si fermavano sulla corsia di emergenza ad aspettare che smettesse, cosa che mi ha fatto pensare che, man mano che mi avvicinavo allo studio di Enrico, la presenza umana andasse visibilmente diradandosi. Inoltre il verde del paesaggio mi sembrava diverso, più esuberante e intenso ma anche più cupo, qualità che mi sembra di ritrovare nei suoi lavori, in alcuni dei più recenti dipinti di paesaggio, dove diversi toni di verde, un verde liquido e instabile, sembra espandersi fino a estinguere qualsiasi traccia di figura (un verde la cui diffusione sulla superficie fa tendere il dipinto al monocromo, mi verrebbe da dire se non avessi paura di esagerare). Oppure la gamma di verdi conquista la quasi totalità della superficie per eroderla dall’interno, smaterializzarla, imprimerle una coltre di diafano e di immaterialità. In ogni caso questa espansione del verde sembra fermarsi al punto da permettere a un lembo di cielo di resistere come dato visivo, qualche nuvola, oppure, sul terreno, un basamento, una statua, rovine dell’antico, ma rovine da giardino, piccole epifanie del paesaggio, segni e brandelli di una memoria che sembra appartenere solo al paesaggio. Il lavoro di Tealdi, non c’è dubbio, ha a che fare con la memoria.
Mi piace pensare che si tratti anche di una memoria personale. I ricordi di un bambino che esplora il paesaggio, la campagna, nei dintorni di dove abita, le case abbandonate, luoghi disabitati, antiche ville nobiliari con annesso parco con resti di statue, appunto. Che si ferma a osservare per ore davanti a un cancello chiuso. Che passando in auto con il padre davanti a un’edicola votiva, viene catturato dall’immagine di una madonna screpolata, per qualche secondo ma indelebilmente. Lo studio di Tealdi, ritagliato nel granaio della cascina di famiglia, sembra ricucire questo tempo tra l’infanzia e l’età adulta, tra l’infanzia e la pittura. Il tempo sembra arrestarsi, cioè, di fronte ai mobili, ai lampadari, attorno agli oggetti
che vi sono custoditi, appartenuti alla famiglia da generazioni, attorno agli strumenti della pittura.
E qui c’è il primo problema. Che Tealdi sia uno di quei pittori che sembra procedere, andare avanti, con gli occhi rivolti allo specchietto retrovisore, a un passato profondo, o a un passato più o meno recente. Ne conosco altri (Michele Tocca, ad esempio, che coltiva l’idealità dei pittori viaggiatori sette ottocenteschi, dei pittori da gran tour, che dipingono dal vivo; Nicola Samorì i cui dipinti ripetono – per poi distruggerle – immagini che vengono da un barocco oscuro e brumoso), e sono tra i miei preferiti. Ma fino a che punto possiamo accettare questo sguardo retrospettivo proprio perché sappiamo che c’è un lato insopprimibilmente autoreferenziale nella pittura? Quali strategie mettono in atto questi pittori, e un artista come Tealdi, per uscire da questa gabbia di autoreferenzialità e riportare il loro lavoro nel presente? E che cosa significa riportare un lavoro nel presente, che cosa significa presente? E questa traiettoria, questa riemersione (quando avviene ma anche quando resta allo stadio di intenzione), non è uno dei lati più suggestivi di questo tipo di lavori?
Da Torino alla campagna attorno a Cuneo, dove abita Enrico Tealdi, il viaggio in autostrada, quel pomeriggio, è durato un po’ più a lungo del previsto. A un certo punto ha iniziato a piovere sempre più forte, poi a grandinare, era impossibile non rallentare bruscamente; molte automobili si fermavano sulla corsia di emergenza ad aspettare che smettesse, cosa che mi ha fatto pensare che, man mano che mi avvicinavo allo studio di Enrico, la presenza umana andasse visibilmente diradandosi. Inoltre il verde del paesaggio mi sembrava diverso, più esuberante e intenso ma anche più cupo, qualità che mi sembra di ritrovare nei suoi lavori, in alcuni dei più recenti dipinti di paesaggio, dove diversi toni di verde, un verde liquido e instabile, sembra espandersi fino a estinguere qualsiasi traccia di figura (un verde la cui diffusione sulla superficie fa tendere il dipinto al monocromo, mi verrebbe da dire se non avessi paura di esagerare). Oppure la gamma di verdi conquista la quasi totalità della superficie per eroderla dall’interno, smaterializzarla, imprimerle una coltre di diafano e di immaterialità. In ogni caso questa espansione del verde sembra fermarsi al punto da permettere a un lembo di cielo di resistere come dato visivo, qualche nuvola, oppure, sul terreno, un basamento, una statua, rovine dell’antico, ma rovine da giardino, piccole epifanie del paesaggio, segni e brandelli di una memoria che sembra appartenere solo al paesaggio. Il lavoro di Tealdi, non c’è dubbio, ha a che fare con la memoria.
Mi piace pensare che si tratti anche di una memoria personale. I ricordi di un bambino che esplora il paesaggio, la campagna, nei dintorni di dove abita, le case abbandonate, luoghi disabitati, antiche ville nobiliari con annesso parco con resti di statue, appunto. Che si ferma a osservare per ore davanti a un cancello chiuso. Che passando in auto con il padre davanti a un’edicola votiva, viene catturato dall’immagine di una madonna screpolata, per qualche secondo ma indelebilmente. Lo studio di Tealdi, ritagliato nel granaio della cascina di famiglia, sembra ricucire questo tempo tra l’infanzia e l’età adulta, tra l’infanzia e la pittura. Il tempo sembra arrestarsi, cioè, di fronte ai mobili, ai lampadari, attorno agli oggetti che vi sono custoditi, appartenuti alla famiglia da generazioni, attorno agli strumenti della pittura.
E qui c’è il primo problema. Che Tealdi sia uno di quei pittori che sembra procedere, andare avanti, con gli occhi rivolti allo specchietto retrovisore, a un passato profondo, o a un passato più o meno recente. Ne conosco altri (Michele Tocca, ad esempio, che coltiva l’idealità dei pittori viaggiatori sette-ottocenteschi, dei pittori da gran tour, che dipingono dal vivo; Nicola Samorì i cui dipinti ripetono – per poi distruggerle –
immagini che vengono da un barocco oscuro e brumoso), e sono tra i miei preferiti. Ma fino a che punto possiamo accettare questo sguardo retrospettivo proprio perché sappiamo che c’è un lato insopprimibilmente autoreferenziale nella pittura? Quali strategie mettono in atto questi pittori, e un artista come Tealdi, per uscire da questa gabbia di autoreferenzialità e riportare il loro lavoro nel presente? E che cosa significa riportare un lavoro nel presente, che cosa significa presente? E questa traiettoria, questa riemersione (quando avviene ma anche quando resta allo stadio di intenzione), non è uno dei lati più suggestivi di questo tipo di lavori?
I volti emergono da una specie di profondità e la loro presenza nel quadro appare come scolpita: da un fondo nero (elemento apparentemente mobile, prensile, capace di rilasciare e di riprendersi, di inghiottire nuovamente quella parte di volto visibile), dalla luce (che sembra agire in contrasto/sinergia con il nero); dalle (molte) macchie e colpi di pennello di superficie. I colpi di bianco, ora più definiti, descrittivi, ora più volatili, punteggiano l’immagine in molti punti e mi sembrano avere un ruolo ambiguo: quando più mimetici
sono l’indicazione a un referente – le statuette e la materia di cui sono fatte, il gesso, una materia screpolata, scheggiata, rotta – e al contempo, quando più indefiniti, semplici macchie e pennellate, svolazzanti sulla superficie.
Quante cose, in questi volti, parlano di materialità. Il volto che è carne e presenza viva. Il nero e la luce che sembrano rilasciare e richiudere questa presenza. Le macchie che riconducono al referente, le statuine in gesso da cui il volto ha origine. Ma c’è di più: c’è il modo in cui Tealdi realizza i suoi dipinti, attraverso un procedimento di “ammanitura”. A partire, cioè, da un fondo gessoso (come non osservare che il quadro, in questo modo, partecipa di una sostanza che è la stessa delle statuine che rappresenta?), applicato sulla tavola fino a ottenere una superficie liscia che elimina cavità e fenditure, su cui viene applicato uno strato di colla di coniglio, a caldo e per mani successive (otto nel caso di Tealdi). Ecco, il punto è che tutte queste cose che stanno sotto o dentro l’immagine – la tavola, il fondo gessoso, la colla di coniglio, il nero – mi sembrano partecipare (esattamente come nelle icone il fondo dorato è solo l’ultimo stadio di quel lento processo che porta all’apparizione) alla rappresentazione di qualcosa che trascende l’umano.
I volti di Manifesto: epifanie del quadro come oggetto.