“Per memoria di ciò che non dimenticheremo mai”*
Luca Federico Ferrero da Société Interludio
Ricordo ancora la prima volta in cui provai a decodificare quella strana parola composta da un numero e da una serie di lettere: 4EVER. Conoscevo un po’ la matematica, ignoravo l’inglese; per questo, quella scritta incisa sul banco che avevo ereditato da qualcuno che aveva frequentato la quinta elementare in quella stessa aula – l’anno prima o chissà quando – era per me indecifrabile. Dovetti ricorrere alla sapienza di un mio compagno evidentemente più esperto delle cose della vita: «si legge “forever”, significa “per sempre”».
I due nomi propri di persona che precedevano il “4EVER”, uniti da un “+”, annunciavano una promessa di eternità, una formula tanto semplice quanto perfetta. Non me li ricordo, quei nomi; anche l’autore della scritta, così come la data di esecuzione, è rimasto ignoto.
Non posso fare a meno di pensare a questo piccolo episodio – incontro infantile con l’eterna lotta tra la durata delle cose e la loro inevitabile impermanenza – di fronte alle opere di Luca Federico Ferrero. La serie, presentata in occasione della mostra da Société Interludio, chiama in causa uno spettro piuttosto ampio di considerazioni: sul passaggio del tempo, sullo statuto dell’opera d’arte, sull’autorialità. Ma procediamo con ordine.
Le opere si manifestano con i segni di un evidente atto vandalico. Degli sfregi solcano la superficie di pitture murali – perlopiù affreschi in stile pompeiano –, compromettendone la visione: sono le stesse scritte che talvolta riescono a guadagnarsi le cronache agostane, con il turista di turno pizzicato in qualche sito archeologico intento a lasciare il proprio sigillo. Un piccolo fremito mi percorre, osservando queste superfici graffiate, deturpate. Come si fa a voler marchiare in questo modo un così antico splendore? Si tratta, tuttavia, di una manomissione calcolata. I dipinti sono sì degli affreschi staccati, ma la loro realizzazione è recente; e i segni che li schermano sono stati prodotti per volontà dell’artista stesso.
L’idea nasce da un’osservazione quotidiana, quella delle tante bellezze sfregiate da un istinto atavico, dal desiderio dell’uomo di lasciare una traccia, di esserci. Lo stesso che probabilmente ha portato ognuno di noi a intarsiare sul banco di scuola le proprie iniziali, il nome di una persona amata, un passo tratto dal testo di una canzone, un improperio. Ferrero ha deciso di sovvertire in maniera sottile questa pulsione irrefrenabile e i contenuti istintivi da essa generati. Oltre a cuoricini e segni che simulano quelli lasciati da uno studente delle medie in gita scolastica, le scritte che danno voce a questi muri sono infatti citazioni colte: “le cose nascono dalla necessità e dal caso”, frase ricamata da Alighiero Boetti su un arazzo; il celebre motto ottocentesco “épater les bourgeois”; un disegno di Enrico Baj; uno scarabocchio ripreso dal dipinto Fallimento, di Giacomo Balla; il “truismo” – “non scrivere mai cazzate” – che Alighiero Boetti aggiunse a penna a un poster di Jenny Holzer, regalato poi a Maurizio Cattelan nel corso di un incontro alla Biennale di Venezia nel 1990. E qua c’è un primo paradosso: la scritta sgraziata e autoreferenziale viene elevata a messaggio sapienziale, persino erudito. Una saggezza che evidentemente, nel mondo ideale di Ferrero, dovrebbe viaggiare sui muri e persino sovrapporsi all’arte del passato. Mi piace immaginare i vari autori che, come dei ragazzini alle prese con le prime uscite di gruppo, si danno appuntamento per incidere le loro massime su queste superfici.
Tutti gli affreschi, dicevamo, sono puntellati da questi e molti altri riferimenti, come degli appunti – dei promemoria – che Ferrero vuole condividere col resto del mondo, allo stesso modo in cui l’innamorato incide il nome della persona amata sulla prima superficie disponibile, e poco importa che si tratti o meno di patrimonio artistico. Anzi, più il supporto è antico e meglio è. Chi esegue lo sfregio, spesso in nome
18 Febbraio – 16 Marzo 2025 Société Interludio Via Torino, 3, Cambiano (TO)
di qualcosa in cui crede ciecamente, vuole competere con il passato, ambisce alla stessa durata, alla stessa resistenza al tempo. La scritta vuole aggrapparsi al monumento come un tatuaggio alla pelle. Ferrero sembra animato da un desiderio analogo, che ha deciso di sublimare attraverso un crossover tra epoche, con la simulazione di temporalità diverse riproposte nel qui e ora. È questo il secondo paradosso della serie in mostra. Ferrero ci investe proiettando sulle opere (e sui di noi) una doppia nostalgia: da una parte quella dell’affresco datato, del sito archeologico, della classicità, del dipinto murale scovato in una qualche abbazia medievale; dall’altra quella del vandalismo vintage, un vandalismo dal sapore anni Settanta, oserei dire quasi dolce, che ci rimanda alle calligrafie incerte di tempi andati, a gite scolastiche e ingenui bravate adolescenziali. È come se la storia con la esse maiuscola entrasse in collisione con una storia più a misura d’uomo, imperfetta e sghemba, in una gara di protagonismo impari e, forse proprio per questo, goffamente tenera.
Ferrero sembra credere a questa sfida tra temporalità lontane, al punto da ribaltare la scritta, nobilitarla, non attraverso la calligrafia – quella rimane piuttosto basilare e brutale – bensì grazie al senso delle frasi e dei disegni. D’altra parte, non è la prima volta che allo “scarabocchio” viene riconosciuto un potenziale creativo, se non un vero e proprio statuto artistico. Il pastorello Giotto sorpreso dal maestro Cimabue mentre dà sfogo al suo impulso grafico disegnando liberamente su pietre e altre superfici “naturali” ne è un esempio; così come l’esaltazione di grafie e segni automatici e spontanei, espressione di un fare arte libero da condizionamenti. Nel disegno dei bambini e nello scarabocchio molti artisti e intellettuali tra fine Ottocento e inizio Novecento hanno visto la possibilità di una “rigenerazione dell’arte”, con le avanguardie pronte ad accogliere l’impulso vitale della creazione infantile, per disimparare e trovare una nuova origine. Ne è un esempio la serie che il fotografo Brassaï, vicino ai surrealisti, realizzò negli anni Trenta, “ritraendo” i graffiti sui muri di una Parigi tutt’altro che Ville Lumière.
Nel processo di creazione delle sue opere, Ferrero si avvale di maestranze qualificate. Gli affreschi strappati sono riprodotti attraverso una tecnica fedelissima all’originale (al punto da poterci trarre in inganno). Pur mantenendo salda la propria autorialità, l’artista fa propria quella strategia di condivisione e delega dell’atto creativo, una strada aperta – in forme diverse – da alcuni degli idoli di Ferrero (Boetti, Cattelan…). Nel proporre una pittura non praticata e nell’invenzione di passati che interagiscono tra loro, Ferrero manifesta la propria appartenenza a una linea profondamente concettuale dell’arte italiana, nella quale mi sembra di scorgere alcune nobili filiazioni, più o meno consapevoli: il richiamo alle temporalità stratificate di Flavio Favelli, il sense of humor di Piero Golia, Vedovamazzei e Paola Pivi, la potenza selvatica della parola scritta (ancorché presentata sotto forma di citazione) delle Martellate di Marcello Maloberti.
Ferrero mi sembra tenere assieme queste matrici in maniera del tutto personale, puntando sulla capacità da parte delle proprie opere – non solo quelle esposte da Société Interludio – di suscitare insieme attrazione e repulsione, di essere piene di grazia e al contempo stridenti, controllate e viscerali. La serie 4EVER ne è una dimostrazione piuttosto emblematica, con i tanti pensieri che riesce a muovere e condensare. In genere è un buon segno quando, nello spazio di pochi centimetri, un’opera sa essere così eloquente.