Un’opera deve essere violenta. Deve essere come un pugno nello stomaco.
Silenziosa ma dura, dura ma silenziosa, come un fuoco sotto la cenere, oscura,
ringhiosa. Il silenzio è per me un materiale per l’opera, una materia. Il silenzio è
una forma di eloquenza. Un’opera non vive in silenzio ma dentro il suo silenzio.
(Claudio Parmiggiani, Stella Sangue Spirito, Actes Sud, 2004, p. 108)
Di fronte alle pitture di Andrea Barzaghi ho imparato, negli anni, ad attendere che l’opera parli: un vortice, un silenzio, un abisso, un pugno nello stomaco.
Siamo nell’estate del 2023, a Milano fa caldo e l’intera casa di Barzaghi odora di colore a olio. Di fronte a Storia degli uomini che decisero di diventare pietra (2023) ricordo un turbamento, un sentirmi persa tra un morso allo stomaco e gli infiniti punti di fuga che costruiscono il dipinto. Ricordo, inoltre, come a distanza di settimane il pensiero tornasse ossessivo verso quel quadro.
“Con quest’opera si chiude un percorso”, mi avrebbe detto Barzaghi. In realtà – ma ancora non potevamo saperlo – Storia degli uomini che decisero di diventare pietra avrebbe segnato l’inizio di un suo nuovo modo di fare pittura.
Il termine dell’Accademia coincide con un cambiamento radicale del fare pittorico di Barzaghi. Dal 2015 al 2021 il suo approccio si trasforma in una perenne sfida: cerca di dimenticare tutto ciò che ha imparato, tenta continuamente di distruggere per ricostruire, portando al grado zero il proprio linguaggio, in un’infinita partita a scacchi tra il pittore e l’opera. Sono questi gli anni in cui l’artista esplora le zone franche tra la pittura e la scultura, sono questi gli anni di una sperimentazione continua: il fine è l’idea dell’opera che già si è rivelata nello spazio della mente.
Ciò che viene dopo – di cui questa mostra è specchio – è una produzione a tratti sofferta, altalenante, fatta di lunghe pause e silenzi alternati a interminabili sessioni pittoriche. Molte opere si fanno vettore da un modus operandi passato a uno presente che, nei suoi fallimenti, trova una nuova freschezza e una nuova impulsività. Non è istinto mosso dal caso ma da ciò che l’artista chiama “demone sulle spalle”. Nell’opera Ancora senza titolo (2022) Barzaghi rappresenta il suo daimon: quella voce segreta dell’anima, quel richiamo che invia messaggi talvolta inquietanti ma che lo induce a realizzare il proprio destino e a diventare ciò che autenticamente o, più precisamente, ciò che possibilmente è. Dietro la sagoma di una figura maschile, il demone si affaccia sulle sue spalle. È il suo doppelgänger: il suo gemello, il suo alter-ego, un altro sé stesso, la propria immagine che a volte sembra stargli affianco. Barzaghi adesso ascolta questo bisbiglio che lo motiva e lo protegge, che inventa e ripete con ostinata fedeltà: di nuovo questa presenza mistica appare ne Il demone sulle spalle (2025), accompagnando l’artista nelle strade più tortuose del fare pittorico. Seguendo questa intuizione e sotto questa nuova influenza l’opera si apre “ad ogni variazione, ad ogni stile, ad ogni oggetto, all’infinità molteplicità, non solo del reale, ma del soggetto che ne fa esperienza attraverso le mille, diverse sfumature del suo essere, indefinitamente mutevoli nel loro divenire”. Barzaghi non segue più una strada principale ma percorre gli infiniti viottoli possibili che gli si presentano: vi si immerge, a volte vi si perde.
L’opera non procede in linea retta ma indugia, oscilla, torna indietro, si ritrova, si ripete. In questo movimento fatto di cerchi, Barzaghi non cerca la risposta perché accetta che l’arte non abbia bisogno di alcuna risposta ma, attraverso le piccole rivelazioni che alle volte l’opera dona, prende appunti, lascia postille. Il processo pittorico adesso è segnato da una lotta tra l’artista e l’opera, che chiede la libertà dell’accadimento sulla tela: Barzaghi non tenta di risolvere il dilemma ontologico del quadro bensì lo contempla nel suo continuo germogliare verso tutti i percorsi intrapresi, anche al termine del proprio intervento nell’opera. L’elemento dicotomico della cornice e il suo concetto espanso (le bordure) acquistano un valore oltre il mero decorativismo: sono soggetti co-protagonisti e parte imprescindibile nella genesi del quadro.
In Amanti (2023) questo espediente chiude e segna un confine tra l’immagine e lo spazio circostante: lo sguardo dello spettatore si focalizza così sul quadro, rendendolo indipendente dal contesto. Una finestra, dunque, un portale per un pozzo profondo dove si annidano i desideri più oscuri che attirano, quasi magneticamente, artista e osservatore verso una visione contemplativa del quadro. Indice, soglia, delimitazione, focalizzazione: in Catwalk (2024) due sagome umane o forse aliene si trascinano con passo pesante sino ai confini del quadro – dietro una terra desolata e sola. Questa istantanea pittorica è chiusa tra da due bande verticali di colore. È tutto vuoto intorno a loro e non sanno dove si trovano; i limiti laterali decontestualizzano ulteriormente lo scenario – il sedimento surreale di un limbo.
In Addio (2025) il senso di solitudine e silenzio del protagonista vengono esponenzialmente rafforzati grazie alla presenza di listelli di legno colorati che di nuovo delimitano l’opera, portandola in una dimensione meta-pittorica.
In Lottatori (2024) le due figure si fondono in un umanoide dai tratti bestiali, in una posizione di ambigua identificazione: è una danza? O una lotta? O un ratto? La composizione è circoscritta da confini neri che ricordano un sipario che, sollevandosi o abbassandosi, dà accesso alla scena e contemporaneamente chiude lo spazio della rappresentazione. Perché queste immagini si mostrino nella loro completezza di significato dobbiamo focalizzarci su di esse: la cornice ne è l’espediente, il titolo una delle chiavi di interpretazione.
Recinti e piscine, perimetri e giardini: il confine non è sul bordo ma dentro il quadro. Sono troppi per citarli i quadri aventi per tema le piscine che, a partire dal 2015, diventano un vero e proprio topos nella pittura di Barzaghi. Piscina come evasione: un cancello verso un’altra dimensione dei sensi ma anche piscina come luogo misterioso, surreale, da esplorare. Piscina come ferita, piscina come vuoto. Adesso queste vasche diventano ventri: il perimetro imprigiona ma allo stesso tempo protegge.
Nel 2022 Carolina Gestri scriveva in maniera esaustiva sulle partiture paesaggistiche di Andrea Barzaghi e di come alcuni suoi dipinti venissero completati per porzioni: ora questa necessità di vivisezionare la natura per poi crearne istantanee che si sovrappongono e si mescolano generando nuovi universi possibili raggiunge il vertice in Storia del cammino dell’ermafrodita (2025). Un’opera impegnativa, al primo sguardo respingente, che chiede e ri-chiede tempo nell’essere osservata. Non si può che rimanere spaesati: ciò che disorienta non è più soltanto la presenza dei molteplici punti di fuga bensì le innumerevoli narrazioni che non procedono parallele ma si intrecciano. Questa rappresentazione – e, in essa, queste – resiste ed errando torna nella mente, si sedimenta lentamente, fino a rivelarsi nell’occhio. Siamo estranei in queste terre vergini, come rimane estraneo l’ermafrodita, un pellegrino verso tutti i quadri possibili – anche nella prigionia c’è movimento e occasione. In questa impasse si rivela un paradosso: più la pittura è costretta in una situazione di cattività, più questa si espande. E, a differenza delle ricerche precedenti, la lotta per questa libertà non avviene fuori dal bordo del quadro bensì dentro.
Non posso sapere cosa seguirà a questa mostra: ogni quadro esposto è una strada che si fa portatrice della propria unicità che, in quanto tale, chiede di essere vissuta. Non so neppure se Storia del cammino dell’ermafrodita (2025) segni un punto di arrivo o un punto di partenza per qualcosa di altro che verrà poi. Certamente, nella sua difficoltà e oscurità, mai come prima Barzaghi condensa in un unico quadro, anche auto-citandosi, tutta la propria ricerca pittorica di quindici anni.
Forse potrebbe, un domani, essere traccia di una storia futura: storia del pittore errante e della sua ombra.