Devo compiere un gesto di…
Questa frase incompiuta su un foglio bianco a pieghe, opera di Giuseppe Chiari, apre ad un interrogativo che attraversa l’intera mostra: quali sono i gesti che avvertiamo la necessità di compiere? Quali i segni che intendiamo lasciare o che, nostro malgrado, lasciamo?
Gesto e segno si configura come un manifesto visivo che esplora il gesto e il segno artistico in diverse valenze: fisica, politica, ludica, poetica ed estetica. In questa dialettica, il percorso espositivo indaga l’espressione psicologica e dinamica del corpo, attraverso azioni talvolta enfatiche, talvolta minime e quotidiane, in alcuni casi caricate di una profonda tensione politica e di rivolta.
Nella loro apparente prossimità semantica, il gesto e il segno rivelano tuttavia nature e funzioni distinte: il gesto si dà come atto spontaneo, non codificato, ancorato alla corporeità e alla dimensione emotiva, capace di accompagnare o persino sostituire il linguaggio verbale; il segno, per contro, si presenta per lo più come elemento convenzionale, codificato, dotato di significato riconoscibile.
Il segno può anche manifestarsi senza fondamento, come pura presenza, come atto che è semplicemente ciò che fa – analogamente al linguaggio poetico nella sua pretesa di dire oltre il dicibile, di significare al di là della significazione stessa.
Le opere esposte articolano questa natura duplice attraverso un percorso che intreccia pratiche e poetiche contemporanee, documenti d’archivio, film e materiali visivi in una costellazione di significati che si intrecciano reciprocamente.
Il gesto del cucire emerge come atto simbolico nell’opera Ago di Lucia Leuci: un ago di bronzo che, attraverso un filo d’oro, tesse una trama tra i margini, rammenda, connette – evocando non solo l’atto del prendersi cura, ma la possibilità stessa di ricucire fratture, tanto materiali quanto simboliche. A questo gesto si lega idealmente quello del camminare, che si materializza nel percorso Calpestio e pozzanghera, tracciato disegnato su un grigliato di sampietrini. Per Leuci, l’asfalto, con le sue crepe e spaccature, diventa metafora della superficie ferita del tessuto urbano. Queste fenditure rivendicano la loro condizione di margine, esigono attenzione, domandano riconoscimento. Camminare diventa altresì un atto di scrittura corporea, traccia impressa simultaneamente nella memoria e nello spazio.
È la stessa traccia che attraversa il film Il viaggio con Patrizia di Alberto Grifi, diario amoroso e intimo, rimasto a lungo inedito. Qui le immagini si caricano di una sospensione temporale peculiare: appaiono, svaniscono, riemergono dopo uno scarto che resta inaccessibile, troppo personale per essere pienamente disvelato. È il tempo sospeso di una relazione amorosa, restituito dalla macchina da presa che indugia sul corpo di Patrizia Vicinelli. La visione di questi gesti è costretta in un tempo altro, che dilata e trascende i ritmi abituali della percezione visiva, esprimendosi attraverso la dimensione poetica. Una poesia fonetica, quella di Patrizia Vicinelli, che si affida alla voce come strumento corporeo primario, che grida parole frantumate e irriconoscibili, scomposte in sillabe, abbandonate al puro soffio.
La nostra esistenza si consuma nella dialettica tra gesto e segno: compiere un gesto, lasciare un segno.
Questi gesti si iscrivono sul corpo, lo marchiano. Con un atto simultaneamente simbolico e fisico, Gina Pane, in Azione sentimentale, imprime un segno politico e di denuncia che rimanda tanto al martirio religioso quanto agli stereotipi sul ruolo della donna come sposa, moglie, madre – figure imposte dalla società patriarcale. Una rosa, nella sua opera, trascende la propria natura ornamentale: diviene arma.
Così come un gesto d’amore può recare in sé un segno di violenza. Attraverso i lavori di Lucia Leuci, Patrizia Vicinelli e Gina Pane, il segno artistico e poetico si incarna in gesto performativo e la parola prende corpo attraverso l’azione fisica.
In questo labirinto di gesti che si cristallizzano in segni, il linguaggio pittorico rappresenta un approdo naturale nel tracciare segni distintivi e istintivi.
Questa dimensione costituisce il nucleo delle ricerche di Pesce Khete e Marco Salvetti, i cui lavori esplorano le tensioni tra segno, colore e gesto pittorico. Per Khete, il disegno è da sempre il fulcro della sua pratica artistica quotidiana: segni tracciati come una partitura musicale ritmicamente scandita, come punteggiatura di una scrittura pericolosa, in cui il gioco consiste spesso nel forzare i limiti stessi della linea. Il segno, come confessa l’artista, «è solo un punto d’inizio del mio discorso, o comunque è un qualcosa a cui non sono particolarmente affezionato, essendo più che altro una necessità, o altre volte, più o meno una condanna (fisiologica)».
La sua è una pittura automatica, simultaneamente astratta e figurativa, dove il segno si trasforma in disegno nel momento stesso in cui assume la parvenza di un oggetto, immaginario o reale.
Nei dipinti di Salvetti, il segno appare deliberatamente smarginato: i contorni sfumano ma il gesto non perde intensità – è anzi deciso, talvolta violento, volutamente rozzo. Ogni dipinto è allegoria della pittura stessa, campo di tensione tra costruzione e disfatta. Sono segni che nascono da gesti inquieti, da un’attitudine ostinata a scavare, senza tuttavia voler consumare integralmente la superficie.
«Cos’è quindi la pittura?», si interroga Salvetti in una conversazione con Luca Bertolo. E risponde: «Cammino, scavo, dissotterro, ricomincio da capo. M’imbarco solo con il cattivo tempo. Sono anni che affronto tempeste dentro una pozzanghera».
Altre opere in mostra mettono in gioco il gesto come atto ludico, come nel caso di Adriano La Licata, che nelle opere Jingle Man (Una concentrazione di eventi) e Thresholds (Hands) esplora movimenti imprevedibili e performativi. Elastici lanciati su tela o altri supporti creano composizioni casuali o segnano la sagoma del corpo dell’artista, trasformando l’azione del gioco in una traccia visiva.
Qui l’energia fisica si trasferisce direttamente all’oggetto, imprimendo l’orma del corpo sulla superficie. Non si tratta solo di pittura ma di performance e stampa; infatti questi elastici vengono utilizzati come veri e propri timbri. L’idea nasce da un ricordo personale: un gioco d’infanzia, le ore lunghe della scuola elementare passate a tirare elastici contro l’amico-complice, in una sorta di fionda improvvisata. Ma questo gesto infantile è anche azione concettuale, linguistica e tautologica. Il lancio degli elastici rimanda allo “scatto” fotografico – to shoot in inglese – un termine che porta in sé l’ambiguità tra atto ludico e tensione violenta. La Licata trasforma inoltre lo sparo in un gesto meditativo e ripetitivo che concentra la mente in un unico punto, rendendo ogni colpo una scelta, ogni impatto una firma.
Ludici e psichedelici, ma simultaneamente politici, sono i segni di Giordano Falzoni. L’opera in mostra si presenta nella sua iconicità come una farfalla, e rimanda inequivocabilmente alle macchie di Rorschach: quelle figure simmetriche apparentemente prive di senso, impiegate nel celebre test psicodiagnostico per scandagliare la personalità di un individuo. Per Falzoni, tuttavia, non si tratta di strumenti diagnostici, ma di farfalle, emblemi di metamorfosi e moltiplicazione, di una forma che si sdoppia e si trasforma. «Tutto quello che vive», racconta l’artista nel film Il grande freddo, «si divide come un seme da cui nascono due foglioline. Io penso a un albero delle uova, che è un po’ come il cielo stellato, nato dalla moltiplicazione di un uovo.»
È una visione che riconduce la pittura a un atto originario e proliferante, dove il colore si moltiplica attraverso il gesto dello schiacciamento, generando un universo policromo e cangiante, intriso di luce e attraversato da tensioni percettive. Un “universo farfo”, come lo definisce l’artista, che raddoppia se stesso a ogni ricognizione visiva. Falzoni si interroga: «Come può fare il pittore a moltiplicare il colore?» La risposta, semplice e visionaria insieme, risiede nell’azione stessa del gesto: «Se tu schiacci delle uova di colore, delle piccole quantità di colore diverso insieme, otterrai una moltiplicazione infinita di sfumature.»
Il gesto quotidiano del mangiare diventa protagonista nella performance Senza pane senza matita di Giuseppe De Mattia, nata da una condizione di impossibilità: per quattordici giorni, l’artista si trova nell’incapacità di disegnare. L’esigenza di trovare uno strumento alternativo nasce da un incontro fortuito: una fetta di pane bruciata, riconosciuta come possibile sostituto del carboncino. Da quel gesto intuitivo, De Mattia inizia a disegnare con il pane, utilizzandolo al tempo stesso come soggetto e come strumento. La stessa fetta viene tracciata con sé stessa, in un atto quasi tautologico.
Il pane bruciato sostituisce così la matita, dando vita a un gesto primordiale e necessario, che trasfigura l’ordinario in straordinario, trasformando il nutrimento fisico in nutrimento estetico: ancora una volta, la dialettica tra necessità corporea e produzione di segni.
Made in Germany segna l’inizio di una riflessione più ampia di De Mattia sul segno e sul riutilizzo di materiali d’archivio. Centrale è il legame con gli strumenti della scrittura, come testimonia la sua frequentazione della storica “Casa della Penna” di Bologna: un negozio specializzato in strumenti per la grafia e il disegno, dove l’atto del commerciante del provare una penna – farla partire, testarne il tratto – diventa per De Mattia un momento di osservazione formale.
L’artista raccoglie i fogli di prova su cui restano impressi quei segni iniziali – gesti tecnici, meccanici, quasi calligrafici – che assomigliano a piccoli riccioli. È a questi segni, inizialmente inconsapevoli, che De Mattia si affeziona particolarmente: tracce nate dall’intenzione di scrivere, ma che diventano disegni autonomi. In questa pratica si rivela il paradosso del segno ortografico, che ha origine nel disegno e, attraverso una lunga evoluzione, si è ridotto a pura funzione comunicativa convenzionale. De Mattia ne riattiva così la dimensione visiva, affermandone il valore poetico e plastico.
A completare il percorso, una selezione di volumi provenienti dall’archivio REPLICA costruisce un atlante visivo dei gesti e dei segni nell’arte, ampliando il campo della riflessione: dai gesti performativi e concettuali raccontati in Come rubare libri di David Horvitz, ai segni urbani e politici del progetto Il sistema disequilibrante di Ugo La Pietra; dai collage dadaisti di Baruchello in La quindicesima riga alla poesia verbo-visiva e concreta di Ugo Carrega, Arrigo Lora Totino, Henry Chopin, Mario Diacono, Adriano Spatola, fino ai pittogrammi di Luisella Carretta.
Questa esplorazione del gesto e del segno che offre una riflessione sulla possibilità di ogni azione di lasciare una traccia e su come ogni traccia conservi, nel suo fondo più oscuro, l’eco di un gesto.
Nel voler affermare la centralità del corpo come strumento primario di conoscenza e comunicazione, la mostra vuole esprimere l’idea che ogni segno – sia esso pittorico, performativo, poetico o politico – conservi in sé la memoria del gesto che lo ha generato, invitandoci inoltre a considerare la natura intrinsecamente politica di ogni traccia: scegliere di lasciare un segno significa affermare la propria presenza nel mondo, reclamare uno spazio, modificare – seppur minimamente – la realtà circostante.
Possibili risposte all’imperativo incompiuto di Giuseppe Chiari che apre la mostra: Devo compiere un gesto di….
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Adriano La Licata (Palermo, 1989) vive e lavora a Palermo. È un artista la cui pratica interdisciplinare comprende fotografia, pittura, scultura e video, strumenti attraverso cui indaga la linea sottile tra razionale e illogico, saggezza e follia, realtà e assurdità quotidiana. Attratto dal mondo dell’invisibile e della magia. La Licata sovverte l’ordine con gesti minimi e ironici, integrando l’errore come elemento rivelatore. La sua ricerca è pervasa da una componente performativa costante, in cui il corpo dell’artista diventa presenza elusiva e dispositivo narrativo. Dal 2024 è rappresentato dalla galleria Francesco Pantaleone di Palermo e nello stesso anno fonda, insieme a Cristina Giarnecchia, ALL, uno spazio indipendente per l’arte situato nel cuore della Vucciria.
Tra le mostre personali e collettive recenti: Cerquone Gallery, a cura di Jordi Pallarès (Madrid, 2021); Palermo Microonde, a cura di Simona Squadrito (Villa Vertua Masolo, Nova Milanese, 2020); Shoøt, a cura di Alessandro Pinto (Atelier Am Eck, Düsseldorf, 2019); Position Palermo Palermo (Museo Civico di Castelbuono, 2019); MANIFESTA12 (Stadtmuseum, Düsseldorf, 2019); Soglia Bandita, a cura di Rosa Cascone (Palermo, 2018); In My Defence I Was Restless, a cura di Giulia Colletti (Project1space, Glasgow, 2017); ALL, a cura di Francesco De Grandi e VHS (Von Holden Studio, Palermo, 2015); Biennale dei Giovani Artisti dell Europa e del Mediterraneo (Skopje, 2009); VideoIT. Un ponte sul Mediterraneo (Fondazione Merz, Torino, 2009).
Alberto Grifi (Roma,1938,2007) è stato un regista, montatore, pittore e inventore italiano, figura centrale del cinema sperimentale e della videoarte in Italia.
Attivo fin dagli anni Sessanta, inizia a sperimentare il linguaggio cinematografico con Verifica incerta (1964), realizzato con Gianfranco Baruchello: un montaggio dadaista di pellicole hollywoodiane scartate, presentato a Parigi davanti a Duchamp e Man Ray, e poi al MoMA grazie a John Cage. Frequentatore del teatro sperimentale e delle avanguardie, lavora con Carmelo Bene, Aldo Braibanti e Patrizia Vicinelli, a cui dedica In viaggio con Patrizia (1965), incentrato sulla poesia fonetica.
Negli anni Settanta inventa strumenti pionieristici come il vidigrafo (per trasferire immagini video su pellicola) e il lavanastri (per restaurare nastri magnetici). Con queste tecnologie realizza Anna (1975), girato con Massimo Sarchielli: un film-verità sull’emarginazione, girato con il primo videoregistratore portatile in Italia, presentato alla Berlinale, a Cannes e alla Biennale di Venezia.
Tra le sue opere più significative: No Stop Grammatica (1967), Vigilando reprimere (1972, con Annabella Miscuglio), Michele alla ricerca della felicità (1978, con Guido Blumir). I suoi lavori riflettono una tensione costante tra sperimentazione tecnica, critica politica e rifiuto delle forme narrative convenzionali.
Nel 2001 presenta A proposito degli effetti speciali alla Mostra del Cinema di Venezia: un autoritratto in forma visiva ispirato a Man Ray. Nel 2006 fonda l’Associazione Culturale Alberto Grifi, divenuta APS nel 2024, per la conservazione e diffusione del suo archivio. Dopo la sua morte, l’opera di Grifi è oggetto di una crescente riscoperta critica, anche grazie a restauri e retrospettive.
Gina Pane (Biarritz, 1939 – Parigi, 1990) è stata un’artista francese tra le principali esponenti della Body Art internazionale. Di origini italiane e austriache, trascorse parte dell’infanzia a Torino prima di trasferirsi a Parigi, dove studiò pittura e litografia all’Académie des Beaux-Arts e agli Ateliers d’art sacré. Attiva dagli anni Sessanta, sviluppò una pratica performativa radicale incentrata sull’uso del corpo come strumento espressivo e politico.
A partire dagli anni Settanta, Pane mette in scena una serie di azioni estreme in cui il dolore fisico diventa linguaggio e testimonianza. La ferita, il sangue, il sacrificio – elementi centrali della sua ricerca – assumono una valenza simbolica e rituale, evocando la dimensione del martirio e il ruolo dell’arte come offerta. Tra le sue performance più note: Il bianco non esiste (Los Angeles, 1972), in cui si ferisce il volto con una lametta davanti al pubblico, e Azione sentimentale (Centre Pompidou, Parigi), dove, vestita di bianco con un mazzo di rose rosse, si conficca le spine sulle braccia fino a sanguinare. Il dolore non è mai fine a sé stesso, ma atto condiviso, gesto etico e politico rivolto soprattutto alla condizione femminile.
Negli anni Ottanta interrompe la pratica performativa diretta, avviando la serie delle Partizioni, installazioni che raccolgono oggetti, testi e tracce delle sue azioni precedenti, mantenendo vivo il dialogo tra memoria e presenza. In parallelo, ha insegnato presso l’École des Beaux-Arts di Le Mans (1975–1990) e condotto workshop al Centre Georges Pompidou (1978–1979). Gina Pane muore prematuramente a Parigi nel 1990, lasciando un’opera intensa e dirompente che ha contribuito in modo decisivo al rinnovamento del linguaggio artistico contemporaneo.
Giuseppe Chiari (Firenze, 1926, 2007) è stato compositore, pianista e artista visivo, figura centrale del movimento Fluxus e tra i principali promotori della “musica visiva” in Italia. A partire dagli anni Cinquanta ha sviluppato una pratica radicale che fonde suono, gesto e immagine in una ricerca sinestetica e interdisciplinare, anticipando in alcune sue opere – come Intervalli o Studi sulla singola frequenza – alcune intuizioni del minimalismo musicale. Tra i suoi lavori più noti: Gesti sul piano (1962) e L’arte è facile (1972).
Chiari ha contribuito in modo decisivo allo sviluppo della scena artistica fiorentina del dopoguerra, insieme a figure come Pietro Grossi, Sylvano Bussotti, Daniele Lombardi e Marcello Aitiani. La sua opera si inserisce in una linea di continuità con le avanguardie storiche, dal futurismo a Kandinskij, da Schönberg al Bauhaus, proponendo un’idea di arte totale dove la musica si manifesta anche come immagine e concetto. In questo senso, “sul fronte delle arti visive l’astrattismo e il concettuale conquistano irreversibilmente l’incorporeità tipica dell’espressione musicale”.
Ha esposto in numerose rassegne internazionali, tra cui Documenta 5 (Kassel, 1972), la Biennale di Venezia (1972, 1976, 1978), la Quadriennale di Roma e la Biennale di Sydney (1990). Dopo la sua scomparsa, il suo lavoro è stato oggetto di numerose mostre retrospettive, tra cui: Giuseppe Chiari, Quit Classic Music (Museo Diotti, 2015), A proposito di Giuseppe Chiari (Villa Croce, Genova, 2013), Fluxus Biennial (Auditorium Parco della Musica, Roma, 2011), e la mostra-performance a DOCVA / Careof Milano (2009). Sue opere sono conservate in importanti collezioni pubbliche, tra cui: Museo Novecento (Firenze), MAMbo (Bologna), Museo sperimentale d’arte contemporanea (L’Aquila), Palazzo Fabroni (Pistoia), e Collezione Gori (Santomato di Pistoia).
Giordano Falzoni (Roma, 1925 – Roma, 2004) è stato un artista, scrittore, traduttore e attore italiano, figura eclettica attiva tra Parigi e Roma dagli anni Quaranta.
Dopo essersi trasferito a Parigi alla fine del secondo dopoguerra, entra in contatto con gli ambienti surrealisti e diventa uno degli animatori della Compagnie de l’Art Brut, il primo nucleo della futura Collection de l’Art Brut poi trasferita a Losanna. Stringe un rapporto di amicizia con André Breton, che lo presenta al pubblico italiano e ne cura la prima mostra personale nel 1951 alla galleria L’Obelisco di Roma. Sempre Breton lo invita a esporre a Parigi, nel 1954, presso la Galerie de l’Etoile Scellée.
Rientrato in Italia, Falzoni partecipa attivamente al dibattito culturale legato al Gruppo 63, pubblicando testi sperimentali e critici su riviste come Il Verri e Il Caffè. Esordisce come scrittore con Teatro da camera (Rizzoli, Milano, 1965), cui seguono opere ibride tra narrativa, critica e teatro. Una raccolta dei suoi scritti è stata pubblicata postuma con il titolo Opere: letteratura, teatro, cinema, arte, società, a cura di Teresa Nocita (Longo, Ravenna, 2019).
Falzoni fu anche un importante traduttore: oltre ad aver curato la traduzione italiana di Breton per Einaudi, ha tradotto numerosi romanzi noir di Mickey Spillane per Garzanti.
La sua ricerca si estende al cinema d’avanguardia: nel 1971 è protagonista del lungometraggio Le avventure di Giordano Falzoni, realizzato da Alberto Grifi. Appare inoltre in diversi film, tra cui L’avvertimento di Damiano Damiani, Dagobert di Dino Risi e La voce della Luna di Federico Fellini.
Giuseppe De Mattia (Bari, 1980) vive e lavora attualmente tra Bologna e Noha (Le). è un artista che utilizza diversi strumenti per indagare sul rapporto tra memoria, archivio e contemporaneità. Fotografia, video, suono, disegno, pittura e installazione sono tutti linguaggi presenti nel suo lavoro, spesso fusi insieme in una sintesi dinamica. Da attento osservatore del panorama artistico contemporaneo, la sua opera affronta tematiche legate alla struttura economica dell’arte, sviluppandosi attraverso un dialogo tra ironia, satira e critica incisiva. È rappresentato da Matèria a Roma e da Banquet a Milano. I suoi libri sono pubblicati da Corraini Editore, Danilo Montanari e Skinnerboox. Tra le mostre recenti: Di traverso a cura di Enrico Camprini ( Galleria de’ Foscherari / Bologna, 2025), Facile ironia a cura di Caterina Molteni e Lorenzo Balbi (MAMbo / Bologna 2025).
Pesce Khete (Roma, 1980) è un pittore italo-svizzero. Vive e lavora a Roma.
Diplomato presso lo IED – Istituto Europeo di Design, dal 2019 è docente di Disegno alla NABA – Nuova Accademia di Belle Arti di Roma. La sua ricerca si sviluppa nel confronto tra poli opposti come ordine e caos, figurazione e astrazione, concezione e spontaneità. Attraverso una pittura che sfugge a classificazioni, mette in discussione i limiti del linguaggio visivo, generando visioni dense, indecifrabili e irrisolte, in cui l’energia del gesto pittorico diventa un elemento dominante e imprendibile.
Ha partecipato a numerose esposizioni in istituzioni pubbliche e private, tra cui: MART di Rovereto; GAM di Torino; Triennale di Milano (Pittura Italiana Oggi); Biennale di Praga; Biennale di Salonicco; American Academy in Rome; Barriera, Torino; Fondazione Coppola, Vicenza; Fondazione per l’Arte, Roma; Museo CIAC, Genazzano; Museo GAMUD, Udine; Museo MARCA, Catanzaro. All’estero ha esposto in contesti come Volta NY (New York), Drawing Now! (Parigi), Isabel Hurley (Malaga), Magda Bellotti (Madrid), Ceri Hand (Liverpool).
Tra le gallerie con cui ha collaborato: COLLI, Ex-Elettrofonica, Monitor, Z2o Sara Zanin (Roma); Société Interludio (Torino); CAR Projects / CAR DRDE, The Flat – Massimo Carasi (Bologna, Milano); Van Der Stegen (Parigi); Localedue e Gaff di Fabio Farnè (Bologna / Milano).
Nel 2017 è stato selezionato per la rassegna Deposito d Arte Italiana Presente ad Artissima (Torino). Nel 2021 tre sue opere sono state acquisite dalla GAM di Torino. Ha partecipato a numerose residenze artistiche, tra cui: Diogene Bivaccourbano (Torino), CARS (Omegna), Painting Detours (Udine), Studio36 a Spike Island (Bristol, UK), e il Simposio di Pittura presso la Fondazione Lac o Le Mon (San Cesario di Lecce).
Lucia Leuci (Milano, 1977) vive e lavora a Milano. È un’artista visiva la cui pratica si sviluppa attraverso disegno, pittura, scultura e installazione, linguaggi che utilizza per indagare tematiche legate all’identità, al paesaggio e alla relazione tra naturale e artificiale. La sua ricerca esplora il corpo, la maternità e la dimensione creola contemporanea, intrecciando materiali organici e sintetici in composizioni che riflettono sulla fragilità ecologica e sull’omologazione sociale. Il lavoro di Leuci si muove tra dimensione intima e collettiva, con una particolare attenzione al riuso e alla sostenibilità, ponendo in dialogo gestualità istintiva e riflessione politica. Gli oggetti nelle sue opere diventano strumenti per evocare dinamiche sociali, tensioni affettive e contraddizioni estetiche del presente. È rappresentata da eastcontemporary a Milano.
Tra le mostre personali recenti: Il vero riconosce il vero a cura di Matilde Galletti, Palazzo dei Priori, Fermo (2024); Anonymous Encounters in dialogo con Dorota Gawęda & Eglė Kulbokaitė, eastcontemporary, Milano (2022); La ragazza di cittá in dialogo con Carol Rama, Tempesta gallery, Milano (2020); Prendersi cura a cura di Christina Gigliotti, Polansky Gallery, Praga; Family Drawings in collaborazione con Zoë De Luca, Unit110,
Marco Salvetti (Pietrasanta, 1983) vive e lavora in provincia di Lucca.
Il suo lavoro si sviluppa attraverso una pittura che rifugge ogni intento rappresentativo e ogni legame diretto con la realtà, considerata piuttosto come un dispositivo mentale capace di liberare il pensiero. Le sue opere si muovono in una dimensione autonoma, in un’“orbita accidentale” rispetto al mondo, dove il dipinto diventa un marchingegno visivo non narrativo. La pittura è per Salvetti un mezzo non per “mostrare” ma per disimpegnare, sfuggendo a ogni logica illustrativa o didascalica.
Tra le mostre personali si ricordano: Super Amateur presso Cardelli & Fontana, Sarzana (2023); Sono alla Vaccari (2021), mostra di fine residenza presso l’Opificio Vaccari di Cardelli & Fontana, S. Stefano Magra; L’Antropologia, Ex Oleificio, Quiesa (LU, 2019); Diorama del Nuovo Mondo, Yellow, Varese (2016); New Works on Painting and Video – A Game With Shifting Mirrors, CAV, Pietrasanta (2012).
Ha inoltre partecipato a diverse mostre collettive, tra cui: Déjà Vu, Annarumma, Napoli (2024); Come un’onda. Come in volo, Museo Francesco Baracca, Lugo (2023); Crash Test, Galleria Cardelli & Fontana, Sarzana (2022); Inventario Varoli, Cotignola (RA, 2021); Noccioline 7, Bientina (2019); Reazione a Catena, Galleria Giovanni Bonelli, Milano (2018); Painters Painting Painters, Mars, Milano (2018).
Patrizia Vicinelli (Bologna, 1943 – 1991) è stata poetessa e artista visiva, attiva tra poesia, teatro e cinema. Figura di rilievo della neoavanguardia italiana, entrò giovanissima nel Gruppo 63, partecipando al convegno di La Spezia nel 1966 con una performance di poesia visiva. La sua ricerca si è sviluppata attraverso una pratica radicale e interdisciplinare che include poesia sonora, scrittura sperimentale e performance, muovendosi oltre i confini tra linguaggio e gesto. Ha collaborato con autori e artisti come Adriano Spatola, Emilio Villa, Alberto Grifi, Franco Beltrametti, Tonino De Bernardi e Claudio Caligari. Il suo lavoro, esposto e diffuso in contesti internazionali (Milano, New York, Tokyo, San Francisco, Venezia), rompe i codici della comunicazione convenzionale, trasformando la lingua in strumento espressivo puro.
Secondo Adriano Spatola, la sua poesia “calpesta quelle convenzioni letterarie e culturali che la prudenza aveva consigliato per tenerlo a distanza” e procede verso “una neodisumanizzazione dell’arte”, nella speranza di “trovare e mettere allo scoperto le radici di un male che è vecchio quanto l’avanguardia”.
Espressione centrale della sua poetica è il concetto di “poesia totale”, intesa come fatto visivo, fonetico e gestuale oltre che letterario. Tra le pubblicazioni principali: E capita (1962) e à, a. A, lavoro in cui smembra i meccanismi del linguaggio per restituirli come gesto libero e assoluto.
REPLICA è un collettivo di ricerca fondato da Lisa Andreani e Simona Squadrito nel 2019, dedicato allo studio, archiviazione ed esposizione del libro d’artista e dell’editoria indipendente moderna e contemporanea.
Attivo inizialmente nella curatela e nell’organizzazione di mostre dedicate alla possibilità espositiva del libro d’artista, REPLICA ha progressivamente orientato la propria attività verso la ricerca. Dal 2020 ha sviluppato la rubrica Archive Actualized, in collaborazione con NERO Magazine, realizzando una serie di interviste e approfondimenti su archivi, biblioteche e istituzioni italiane legate al libro d’artista e agli ephemera.
Dal 2022 REPLICA ha avviato una ricerca sul movimento poetico dell’Antigruppo siciliano, raccogliendo materiali editoriali e ciclostilati al fine di costituire una prima bibliografia critica e progettare una mostra in collaborazione con viaraffineria (Catania), presentata ad Art Verona. Il progetto ha vinto la XII edizione del bando Italian Council (2023), promosso dal Ministero dei Beni Culturali.
Nel corso delle sue attività, REPLICA ha collaborato con importanti realtà internazionali tra cui Kunsthalle Lissabon (Lisbona), PUBLICS (Helsinki), Fondazione Brodbeck (Catania), Cashmere Radio e Arts of the Working Class (Berlino). Nel 2023 ha curato la sezione MULTIPLI all’interno di Arte Fiera.