2024DESIDERIO Atto secondo

DESIDERIO. Atto Secondo

DESIDERIO

ATTO SECONDO


Testo critico di Giulia de Giorgi

Il movimento sta alla base di ogni divenire.

(Paul Klee, Confessione creatrice, 1920)

 

DESIDERIO – ATTO SECONDO racconta di una mancanza che sempre si rinnova, di un’esplorazione che non trova approdo. Il tempo del completamento non è ora, ma è continuamente differito. Lo spazio dell’appagamento non è qui, ma altrove. È il desiderio come sorgente inesauribile che origina da se stessa e spinge l’individuo a errare in cerca di ciò che non ha ancora incontrato, nel tentativo di sospendere lo scorrere del tempo.

Piove anche sul mare, osserva Nazzarena Poli Maramotti, con positiva rassegnazione, in una resa all’ineluttabilità dei fenomeni che non controlliamo. Quando piove anche sul mare non resta che farsi piovere dentro e farsi attraversare dal diluvio. Quando le gocce del cielo si fondono con le gocce del mare, l’acqua si ricongiunge con se stessa. Si confondono il sopra e il sotto, si perdono i riferimenti, insieme alla percezione del proprio corpo e della sua relazione con l’ambiente circostante. Come recuperarla, per ritrovare il centro? Con il disegno di un timone e di un’ancora, Eva Marisaldi sembra offrire strumenti utili all’orientamento in questa difficoltosa navigazione a vista, per direzionare e ormeggiare la barca. In realtà ci scaraventa nella contemporaneità, facendoci uscire da una dimensione atemporale per entrare nella storia degli eventi. Un oro luccicante, simbolo di preziosità, qui urla tragicità. “L’acqua sulle sponde è coperta di schiuma marrone quasi dorata”: parole apparentemente neutre – che alludono a un’alterazione dell’ambiente – scritte su una coperta termica di emergenza, per rendere manifesta l’analogia di due situazioni innaturali che non possiamo accettare. Di fronte alle quali noi, Osservatori di onde, avvertiamo la nostra esistenza come parte di un’esistenza collettiva.

Uno stato di quiete accompagna la riappropriazione dei riferimenti prima perduti. Andrea Barzaghi dipinge il momento Dopo la tempesta, quando l’individuo ritrova nuovamente il proprio centro, uscendo da un turbinio che pareva senza fine e riappropriandosi della propria identità. Ri-conosce a questo punto non solo se stesso ma anche l’altro da sé. Scopre – o forse ricorda – che durante il diluvio non era solo. Due corpi umani si muovono a quel punto, per scelta o per necessità, in direzioni opposte, così come le due creature marine di Gianni Caravaggio: Un polpo e un calamaro si allontanano tra di loro per incontrarsi dall’altra parte del globo, legati da un filo invisibile.

 

 

In questo loro movimento e nell’inevitabile mutamento di stato che lo accompagna, il polpo e il calamaro ci fanno avvertire la temporalità – attimo dopo attimo – e la spazialità – metro dopo metro. Chissà che al termine del loro percorso, incontrandosi in un punto che non possiamo conoscere, le due creature non decidano di ricominciare a viaggiare, invertendo la direzione. Potrebbero così sospendere eternamente il tempo, eludere la caducità cui vanno incontro tutte le cose del mondo, per esistere in un istante potenzialmente senza fine. Il cortocircuito messo in atto da Luca Federico Ferrero nella serie 4ever scardina la successione lineare degli accadimenti cronologici. Sulla porzione di affresco si incontrano – o si scontrano – l’autore della pittura pompeiana e l’autore del graffito contemporaneo, posti ai due capi di una linea che collega passato e presente. In mezzo, un terzo autore, cui Ferrero delega la realizzazione materiale dell’affresco.

Qual è l’opera a questo punto? La compresenza dei piani temporali lascerebbe intendere tutte, ma allo stesso modo nessuna: la specificità di ciascuna è tralasciata per essere inclusa in una storia più grande. Nel lavoro di Mark Handforth lo scorrere del tempo si fa visibile nello sciogliersi della cera delle candele. Nella sua plasticità, la luce della fiamma diventa tangibile manifestazione dell’energia sprigionata dalla combustione. Mentre la candela si consuma, la conchiglia va incontro a un’evoluzione meno percepibile e decisamente più lenta: entrambe soggette a un processo trasformativo, rivelano l’inevitabilità del cambiamento, sia esso latente o apparente. Immagine emblematica della trasformazione e del movimento ciclico è l’onda, che bagna la sabbia e si ritrae, lasciando la riva ogni volta diversa da prima.

Ruth Proctor fissa l’immagine di una porzione di oceano su un foglio di carta che, rivestito di sostanze chimiche, viene impressionato dalla luce solare. Il foglio di carta registra il processo in una determinata porzione di tempo. L’artista, immersa nell’acqua nel tentativo di catturare una transitorietà non replicabile, è tutt’uno con l’elemento naturale, associata indissolubilmente all’onda che prende forma in quell’istante: l’acqua, lasciando l’impronta, si fa veicolo di conoscenza. L’acqua rispecchia i moti dell’animo, che possono essere letti come pagine di un libro: Joachim Schmid associa scatti fotografici della superficie marina a dettagli di un testo. La descrizione verbale va di pari passo con la descrizione visiva e con il processo del pensiero. L’interiorità non è rivelata, ma assume la forma implicita di una traversata su un oceano di parole, nelle quali ci riconosciamo come esseri razionali, al di sopra di un flusso che, invece, nei disegni di Francesco Gennari emerge spontaneamente e si manifesta.

Qui l’alternarsi tra “scrittura disegnata” e cancellature ha il ritmo dell’acqua che frange le coste. I due gesti si equivalgono, sono entrambi gesti pittorici. L’uno non può esistere senza l’altro, all’interno di un coagulo di segni che misurano l’inconscio dell’artista. La traccia sulla carta, quasi un impulso di grafite, mima il fluire inconsapevole con un linguaggio apparentemente casuale che deposita per poi erodere, in un continuo andirivieni. “Scrivere con la sinistra è disegnare”, diceva Alighiero Boetti.

Nell’opera di Eugenia Vanni la matrice spontanea è costituita da oggetti di uso quotidiano: taglieri da cucina invasi dall’inchiostro, a riempire i tagli lasciati dalle lame che negli anni ne hanno solcato la superficie. In virtù dei diversi e casuali livelli di incisione, l’immagine stampata che ne risulta è testimonianza della quotidianità e memoria del contesto familiare. Il titolo dell’opera, Sturm und drang, gioca con la dimensione domestica e con l’utilizzo dell’oggetto comune, qui elevati a dimensione epica nel richiamo al movimento del Romanticismo. Se nell’opera di Eugenia Vanni gli strati della memoria vengono portati alla luce, nella Tempesta di Francesco Carone questi strati vengono intenzionalmente coperti, celati. L’opera, affidata ogni volta a un artista diverso – che lavora sul medesimo supporto originando un’immagine nuova seppur ispirata alla precedente – muta nella superficie, conservando al di sotto la dinamica di creazione e distruzione. Costantemente rinnovata, l’opera è sempre uguale e sempre diversa, come l’autore, in balia della precarietà e dello spiazzamento al cospetto della natura. Il quadro, destinato a una fine solo con la morte dell’artista, vive all’interno di un processo che accarezza circolarità e ripetizione, affermando per poi obliterare. L’autore, nell’impossibilità di rimanere uguale a se stesso, si dimentica, per ritrovarsi in un mutamento continuo.

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